giovedì 2 maggio 2013

Il Monte Pidocchina!

La mattina è umida e stranamente calda per essere il primo Maggio. È una di quelle mattine in cui già dalla prima pedalata capisco che avrò da soffrire parecchio, ma l'obbiettivo è troppo forte nella mente per essere abbandonato alla controvoglia delle gambe.
Il Monte Pidocchina è una di quelle mete che guardo da tempo sulla cartina. Anni. Rimando dopo rimando, sono giunto a questo primo Maggio, di certo non di festa per le mie gambe. Cerco di rilassarmi raggiungendo Montecatini, dove attacco la prima asperità di Vico: 2,5 km giusto per scaldarsi. Poi breve discesa e poi la sempre temibile salita di Avaglio. I dubbi sulla condizione vengono fugati inappelabilmente qui, e la sentenza dice che oggi non è affatto giornata. C'è qualcosa che non va. Probabilmente un'influenza senza febbre che si manifesta solo subdolamente.
Il bello, si fa per dire, di queste giornate è il “giochino dei rapporti”, come a me piace chiamarlo. So bene che dopo poco l'inizio della salita sarò già a corto di rapporti, e inizia quella micidiale partita (che il ciclista perde sempre!) contro la bici, in cui tenersi un “dente” di riserva non porta mai ai risultati sperati... e alla fine manca sempre!
Conosco la salita, e la domo con l'esperienza. Poi il falsopiano di Prunetta, la discesa verso la valle del Reno, ed infine l'arrivo a Pracchia. Qui ha inizio il Monte Pidocchina, una salita di 7 km con pendenza media che sfiora il 10%. In cima, sono quasi 1300 m sul livello del mare.
L'avvio è subito tosto, e l'asfalto umido, sporco ed estremamente rovinato non aiutano. Inizia poi una serie di rettilenei spaccagambe, dove il garmin raramente segna una pendenza a singola cifra. Evito di guardare la velocità, per non deprimermi. Le spalle fanno un balletto brutto a vedersi, come se poi aiutassero un po'... macché! Per fortuna, via via il paesaggio spunta fra la vegetazione, così come quell'inebriante odore di resina che per me è quasi una droga. Vuol dire montagna, vuol dire solitudine, vuol dire riempirsi i polmoni di purezza e i sensi di tranquillità.
Per fortuna la cima arriva, e la mia maschera di sudore accenna una risata: è fatta!
Qualche foto, e poi la discesa a passo dìuomo viste le condizioni.
E poi, per tornare al masochismo degli scalatori, invece che tornare diretti verso casa... altre salite! Prima il Passo dell'Oppio, poi le Rampe di Casa di Monte. E poi a casa! 146 km, 2600 e passa metri di dislivello, un mal di gambe da morire e tanta soddisfazione! Viva la bici... e la salita!


Le foto:  https://picasaweb.google.com/101162847257443478317/MontePidocchina?authuser=0&feat=directlink

martedì 23 aprile 2013

Il bello della bici

A sorpresa, mi si liberano due ore in pausa pranzo... sono lesso, perchè la terra è bassa, ma il richiamo del Serra è più forte del riposo.
Mentre vado, penso alle mie gambe di legno, alla forma lontana, ai bei tempi in cui non sentivo la catena in salita e di quanto sia ora difficile essere "quello di prima"...
Ma appena la salita inizia, come una forza più forte di me, inizio a sperare che qualcuno mi superi, per approcciare un scontro a viso aperto... una speranza sempre avuta, rarissimamente avverata.
E invece oggi è successo... un ragazzo mi supera forte! Mi obbligo a lasciarlo andare, di continuare tranquillo del mio passo... se ne va, è avanti di 15 metri... niente, non ce la faccio, devo andargli dietro! E quella musica della catena che scende un paio di denti, la danza sui pedali e l'ossigeno sempre al limite mi travolge e mi trasforma... È lui il più forte, oggi, e gioco in difesa. Cambi di ritmo, ma non cedo rimanendo aggrappato a un filo sempre più esile... L'ultimo suo scatto ai 24 all'ora è una coltellata su tutte le gambe, ma mordo grinta e strada: lui non mi staccherà! E non mi ha staccato...
Amo la bici per questa sua crudeltà. La amo perchè riesce a cambiare tutto con niente. Ma soprattutto perchè mi rende felice di essere più debole di altri, dandomi gli stimoli per poter essere più forte. Amo la bici perchè, tutte le volte, mi ricorda maledettamente la vita: la sfida infinita fra l'essere forte o debole, dove spesso è il debole che sa essere più forte.

giovedì 21 marzo 2013

Tutto diceva di NO. Fiamme in gola, fiumi dal naso, e qualche linea di troppo sul termometro... ma era più forte la voglia di uscire, di pedalare, di usare questo bellissimo e raro sole per ritrovare la propria dimensione. Non una macchina, ne altro: solo io e la salita... Il fiato che graffia in gola è l'unico suono muto spiacevole.
Il ciclismo è fatto di tanti ciclismi... dove ognuno si crea il suo per poter essere se stesso. Il mio è semplice: salita e solitudine, sperso fra i monti. Perchè quando la strada sale siamo tutti soli, e mai come scalando vette, la solitudine è la mia forza.

giovedì 28 febbraio 2013

Articolo scritto per il periodico "Pieghe d'Arno"

"La polvere si solleva, e come una nuvola di primavera svanisce nel tempo in cui si forma. Piccoli sassi schizzano poco più in là, senza nulla muovere. Le ruote continuano a girare, leggere e veloci, fregandosene del cronometro. Non è un giro in bici come tanti, ma un viaggio nel tempo, attraverso luoghi in cui sembra quasi essersi fermato, fra continui saliscendi che ben presto stancano le gambe. Viale delle Pianore, una strada bianca perfetta e spettacolare nel passaggio dal viale di cipressi di fronte al villino di caccia appartenuto un tempo ai Medici.
No, non è il Chianti, sono le Cerbaie.
Colline che sembrano nascondersi dalla fretta di tutti i giorni, in cui continua a vivere l’orgoglio di un’epoca ormai lontana, scandita dal suono delle campane e dai lavori nei campi e nelle prode. Colline di cui in pochi, magari anche del posto, conoscono l’esistenza.

A Staffoli è una nuvolosa domenica di Settembre, e non si capisce cosa abbia intenzione di fare il cielo. Il Giro delle Cerbaie è alla seconda edizione, e a fronte dei 140 cicloturisti dell’esordio, stavolta sono 230 a partire alla scoperta di queste zone un po’ dimenticate, un po’ ignorate.
Le strade, già da subito, sono quelle avare di pianura che con il loro incessante scendere o salire caratterizzano questo angolo di Toscana. E sono anche strade storiche, prestigiose. La via Francigena con il suo tracciato secolare è qui a due passi, all’ombra dei boschi che ombreggiano i celebri “vallini” scavati da torrenti tanto piccoli quanto impetuosi dopo le pioggie.
I borghi di Massarella e Torre sono un passaggio obbligato, e sulle loro rampe qualcuno già non trova più rapporti da scalare. Per fortuna arriva un po’ di pianura, prima di affrontare le scenografiche strade delle colline di Cerreto Guidi. Non sono più le Cerbaie qui, ma lo scopo è divertire, vedere sempre posti nuovi, mai stancare con i soliti percorsi. Ciclo-Turismo, in una parola.

Dopo Cerreto Guidi, le ruote girano svelte verso le colline di San Miniato, per regalare agli occhi dei ciclisti alcune perle di rara bellezza come il passaggio dal borgo di Castelnuovo d’Elsa e di Coiano, le deserte strade di Corrazzano e le cattive salite che qui si celano fra i boschi. Da una parte la dolcezza del paesaggio, dall’altra la crudeltà dei “muri” di Montebicchieri e Moriolo, per toccare poi l’apice della malvagità con la temibile Via dell’Inferno, a Montopoli. Un nome, un programma.
Può sembrare strano per molti, ma l’animo del ciclista vive di queste sfide. E più accidenti e santi chiamati in causa vengono sospirati durante questi sforzi, più la soddisfazione dei pedalatori cresce una volta scesi dalle bici. Lo racconteranno ad amici e parenti, e sarà l’ennesima esperienza da ricordare per molto tempo.

Abbandonate queste colline, è di nuovo la volta delle Cerbaie, stavolta in zona Santa Maria a Monte. Il “muro” del Prataccio attende perfido le gambe ormai stanche dei ciclisti, e con le sue pendenze a doppia cifra e il tratto sterrato a metà ascesa è già un totem del Giro delle Cerbaie. Così come la strada bianca delle Pianore, il viale di Cipressi del borgo di Montefalcone e le vedute spettacolari sul Valdarno che si aprono fra le siepi di bosso della villa di Poggio Adorno.
Chi percorre queste strade per la prima volta non può che rimanere stupito dalla varietà di bellezze che questo territorio offre, e non può che ritrovarsi senza fiato quando, a sorpresa, a una manciata di pedalate dall’arrivo il “Muro dei Be’ini” richiama ad un ultimo improvviso sforzo. Il centro Avis è vicino ormai, e il lauto pasta party sapientemente preparato dalle mani di chi da anni cucina per la sagra della pappardella alla lepre saprà senza dubbio ripagare dei tanti sforzi.

Il Giro delle Cerbaie termina qui, laddove è anche iniziato. Sui tavoli piatti e bottiglie vanno e vengono, accompagnati dal vociare di chi deve assolutamente ripercorrere il percorso anche a parole. La soddisfazione è stampata sui volti, l’obbiettivo è centrato: far divertire e far conoscere le Cerbaie. Un evento che il Comune di Santa Croce sull’Arno ha deciso di patrocinare dall’esordio, condividendone fini e principi, e che nel 2013 si appresta a fare il definitivo salto di qualità. Tante le novità allo studio: un percorso che avrà alcuni passaggi più unici che rari, la collaborazione con i comuni e alcune associazioni, ma soprattutto l’ambizione a creare una giornata per la promozione delle Cerbaie a 360°. L’appuntamento è per il 22 Settembre. Lasciatevi stupire."

martedì 29 maggio 2012

C’erano una volta gli attacchi da lontano... Riflessioni sull'influenza degli allenamenti sul modo di correre

Ce li ricordiamo piegati su quelle bici così geometriche, il fiato a scandire ogni colpo di pedale, lo sguardo lanciato già oltre il tornante successivo. Un attimo a sedere, e poi di nuovo in piedi. La voglia di stupire portata in giro come una valigia leggera come il volo di un falco sopra le vette. La grinta nascosta in gola, e all’improvviso straripante fra i denti. Lucidi di sudore, grondanti di fatica, con quelle gocce silenziose a scrivere sull’asfalto la traettoria incerta dell’ennesima sfida alla gravità.
C’erano una volta gli attacchi da lontano. C’erano una volta gli scatti.

Facile cadere nelle provocazioni delle farmacie che han chiuso i battenti, delle fatiche faraoniche, dei riposi sempre più brevi e del livello sempre più alto. Facilissimo dire che il ciclismo non è più quello di una volta, anche se questo è vero.
Il Giro d’Italia è già alle spalle, e a malincuore siamo costretti ad ammettere che non ci mancherà molto. Stanchi del solito e noioso copione riproposto ogni giorno dagli stessi attori. Stesse frasi. Medesima mimica. Stessa paura di improvvisare. Di caratteristi neanche l’ombra. O forse si, in quell’ammiraglia così vistosa di giallo fluorescente, e così rumorosa per quell’animo tutto cuore di Luca Scinto?

Già, il cuore. Quel cuore a dare i tempi i dell’attacco, o le emozioni da convertire in fatiche, o a generare quella grinta che copre ogni paura, soprattutto quella di perdere. E là rimaneva solo la voglia di vincere, di sbancare la corsa, di stupire. Quel cuore sembra essersi perso per strada, forse insieme al sudore versato fra un tornante e l’altro. Eppure il cuore del ciclista c’è ancora, si è solo trasformato. Prima in un numero a tre cifre da leggere sul munubrio, per capire quanto ancora ne rimaneva. E poi ridimensionato, lasciando spazio alla forza della fisica applicata: benvenuti ai Watt.

Quanto siano cambiate le metodologie d’allenamento nel mondo del ciclismo lo sanno solo gli addetti ai lavori, ma è proprio verso questa nuova scienza che vorrei indirizzare per un attimo la riflessione. Se l’allenamento è alla base della prestazione, è sensato ipotizzare la diretta influenza delle metodologie d’allenamento sull’impostazione delle gare degli atleti di oggi. L’ingresso del Powermeter, il misuratore di potenza, nel mondo delle due ruote ha letteralmente rivoluzionato gran parte della letteratura sul tema. Accertati i limiti ed i punti deboli dell’allenamento mediante cardiofrequenzimetrio si è investito molto sulla ricerca di una metodologia più sicura e dai risultati migliori: la potenza. Non è stato difficile ottenere già da subito ottimi risultati sugli atleti su cui le nuove tecniche sono state testate.

La grande differenza fra il cardiofrequenzimetro e il misuratore di potenza è che il primo è quanto mai sensibile alla variabilità quotidiana della frequenza cardiaca, influenzata da un numero di variabili estremamente ampio (temperatura, umidità, condizioni di salute, stress, ecc). Inoltre, con il cuore è praticamente impossibile allenare empiricamente gli sforzi di brevi durata, vista la risposta non istantanea dell’organo alla fatica. Infatti, con il cardiofrequenzimetro non si fa altro che misurare la risposta del corpo alla fatica, mentre con il misuratore di potenza si misura direttamente la potenza impressa sui pedali dall’atleta. Un altro mondo, in pratica. E nuove frontiere.
Così, tutto si è trasformato in numeri, in grafici, in fisica e matematica. Ad ogni livello di potenza corrisponde un tempo limite in cui poterla applicare. Ogni sprint è un wattaggio sempre più alto da raggiungere. Con “CP20” ad esempio si indica la potenza critica (Critical Power) che si riesce ad erogare per 20 minuti. E poi una serie interminabile di dati e statistiche indicate con le sigle più svariate.

Attraverso tutto questo, si allenano i ciclisti di oggi. Ed è qui che la riflessione vuole arrivare, perché se, come già detto, l’allenamento è alla base della prestazione, si può ipotizzare la diretta influenza (negativa) di queste metodologie d’allenamento sul modo di correre dei top rider di oggi. Tutto è quantificato in minuti e Watt. Ogni allenamento è una ripetizione rigida di numeri impostata sui propri limiti. Non c’è più spazio per studiare le proprie sensazioni, di provare ad ascoltare il cuore al posto dei numeri. C’è la paura, o forse la frustrazione, sicuramente lo smarrimento di quella sfida necessaria a vincere se stessi prima degli altri. Tutto rimane confinato fra due muri alti come i limiti che i numeri ti impongono, e che il cuore vorrebbe abbattere. Ma del cuore, ancora, rimane soltanto una cifra più piccola sullo schermo al centro del manubrio.

Ed è allora così facile rivedere mentalmente le immagini di una qualsiasi tappa di montagna dell’ultimo Giro. Perfetti su quelle bici addolcite nelle forme. Il fiato sussurrato da nascondere all’avversario. Lo sguardo a far la spola tra la strada e il computerino con i Watt in bella vista sul manubrio. Sempre a sedere e raramente in piedi. La voglia di stupire come una pesante valigia affidata ai giornalisti prima di partire. La grinta celata in gola, e l’attesa diffusa negli occhi. Lucidi di sudore, grondanti di fatica e terrore di scoppiare, con quelle gocce silenziose a scrivere sull’asfalto la traettoria sbiadita dell’ennesima sfida alla gravità.
C’erano una volta gli attacchi da lontano. C’erano una volta gli scatti.